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Magisofia

La magia, nel corso della storia umana, è stata progressivamente sostituita dalla tecnica, perché la tecnica è magia, ed è alla base di quel comportamento magico che l’uomo pone in essere per vivere e sopravvivere, occupando il centro della scena, attraverso la conquista della stazione eretta, nonostante la sua ontologica condizione umana di fragilità e precarietà. Sono tecniche il canto e la poesia, il linguaggio, nella forma parlata, e la scrittura, la rappresentazione grafica, la capacità di calcolare, il poter immaginare, sognare, fare previsioni sul futuro, la cultura, la scienza, il sapere stesso in ogni sua forma. Tutto ciò che ogni giorno rende meno faticoso e più piacevole all’umano il difficile compito dello stare al mondo, dell’imparare a vivere, rendendo meno inospitale l’ambiente e la natura in quanto tale. La tecnica è dunque lo strumento, l’utensile, o la protesi che colmano il vuoto della mancata specializzazione dell’uomo rispetto all’animale, la cui sopravvivenza è legata alla nicchia biologica di riferimento e alle risposte istintive. L’uomo, di contro, ha dovuto sviluppare l’intelligenza naturale, incarnata ed attrezzata, laddove non era dotato di istinti e di output predeterminati agli stimoli ambientali esterni. Fino a giungere alla tecnica oggi più innovativa e versatile, che è costituita dalle applicazioni dell’intelligenza artificiale. È dunque finita l’epoca dell’homo faber? L’homo sapiens ha del tutto scalzato il faber fortunae suae? Personalmente non credo proprio. Se è vero che il tempo liberato dalle macchine e dall’intelligenza artificiale potrà essere fruttuosamente utilizzato per l’educazione e l’apprendimento, e dunque per potenziare le virtù dell’homo sapiens, è anche altrettanto vero che, proprio perché l’umano è, in sé, un animale tecnologico, e che del sapere teorico sa farsene ben poco in assenza delle sue applicazioni operative, quanto più si sviluppano la scienza e la conoscenza teoriche, tanto più, e a maggior ragione, è necessario prevedere a latere un progresso altrettanto veloce ed esponenziale delle competenze tecnologiche ed applicative, che rendano operativi, e pragmatici, i saperi umani. Quindi l’homo faber continua ad essere in piena evoluzione e sviluppo almeno quanto l’homo sapiens sapiens. Ed è chiamato in causa per il suo potere trasformativo sul mondo come sapiens cum virtute agendi, alla maniera in cui Giordano Bruno usava declinare l’attività del mago rinascimentale. La tecnosofia di cui parlano nel loro omonimo libro Maurizio Ferraris e Guido Saracco è, perciò, forse una magisofia dei tempi post contemporanei? Ma cosa è, appunto, la tecnosofia?


Tecnosofia

Tecnosofia è un testo di Maurizio Ferraris e Guido Saracco, pubblicato in prima edizione per Laterza a giugno del 2023. Un tema molto attuale, che propone un incontro duraturo, e non occasionale, tra umanesimo e tecnologia.

Il presupposto da cui parte tutto il lavoro a quattro mani dei due docenti torinesi è che gli esseri umani, senza tecnica, sono inadatti alla sopravvivenza. Inetti – sostiene Ferraris – o imbecilli, da in-baculum, senza bastone. Il bastone, difatti, come la leva, l’utensile, la protesi, servono, ad attivare comportamenti intelligenti, indispensabili a modificare la realtà, per potersi adattare ad essa. Questo perché l’essere umano, privo di alcuna specializzazione - cosa che hanno, invece, gli animali – deve sopperire a questa carenza della natura per poter sopravvivere anche in condizioni ostili, come in epoche assai lontane dalla nostra, quando le prime urgenze erano legate al bisogno di trovare un riparo per la notte, di potersi proteggere dal freddo, e di coprirsi, ma soprattutto di soddisfare la fame. La vita umana è, perciò, da sempre legata ad un mezzo, ad uno strumento, ad una tecnica, o all’intelligenza naturale che, attraverso l’evoluzione dei saperi, è diventata anche intelligenza artificiale.

La tecnica, per Ferraris, rivela l’uomo, e non accade affatto il contrario. Il Web, come data base mondiale, è uno strumento di catalogazione e di raccolta dei dati, che registra e che lascerà le nostre tracce ai posteri, proprio come accadeva di fare ai cavernicoli, magari non in modo intenzionale, quando incidevano i loro graffiti sulle pareti rocciose delle caverne. Avere oggi paura del Web è un po’ come temere la propria ombra, non vedendo che essa è generata dalla presenza corporea di un individuo reale, che quindi non è concepibile in modo separato ed autonomo dall’esistenza di un essere umano che si manifesti, prima di tutto, attraverso l’espressione somatica del proprio sé.

Ma c’è di più, in questo libro, ed è la costruzione di un’impalcatura delle tracce che l’umanità lascia, più o meno consapevolmente, sul web. Un edificio di circa dieci piani, che ci permette di capitalizzare quei dati che tutti rilasciamo, autorizzando le piattaforme ad usarli come meglio credono. Questione che ci fa temere per la nostra privacy, tra le altre cose. Perché non sappiamo come quei dati saranno utilizzati dopo che noi li avremo ceduti.

Ma passiamo a vedere come è strutturato questo edificio a più piani.

Il primo piano è quello dell’icnosfera, cioè delle tracce, dei reperti, anche nella forma di immagini, che l’umanità lascia, nel suo passaggio, alle generazioni successive. Vi è poi il livello dell’infosfera, che è costituita dalla gran mole di informazioni che l’uomo produce, nella forma dei documenti, nel corso del tempo, e che oggi si trovano nella disponibilità del web, in quanto grande apparato di registrazione. Il terzo piano è la docusfera, cioè l’insieme dei dati raccolti in un grande data base mondiale, che consente ai gruppi informatici di utilizzarli per produrre modelli previsionali che successivamente venderanno alle aziende leader nel settore di interesse, a prezzi elevatissimi. Ma questi dati vengono raccolti grazie alla mobilitazione generale di tutti gli esseri umani che lavorano, per quasi tutto il giorno, sul web. Un lavoro svolto a titolo gratuito, fatto volontariamente, e senza alcuna forma di coercizione, che finisce per produrre un plusvalore relativo ad attività spontanee, di vita, che nemmeno vengono riconosciute come lavoro in se stesse. Ma il web non potrebbe esistere senza l’umanità, e se l’umanità si trovasse a scomparire, un attimo dopo avrebbe fine anche l’attività del web, che dipende strettamente da quella mobilitazione umana, volontaria e su base gratuita. Perciò, sarebbe giusto ed equo ricapitalizzare quel plusvalore, che già, di fatto, appartiene all’umanità, per ripagare l’uomo della sua mobilitazione totale sul web. Ma come farlo? Ed è qui che entra in gioco il quarto livello, che è caratterizzato dall’antroposfera, cioè da quel capitale umano che è costituito da dati rilasciati al web, che esiste grazie all’umanità allo stesso modo in cui esistono i virus. Senza l’uomo finirebbe di esistere il web, e non ci sarebbero più virus sul pianeta terra. O almeno non ci sarebbero più quelli che vengono trasmessi e veicolati attraverso l’uomo. I dati del web rappresentano fatti della vita reale, intesi come azioni, movimenti, spostamenti. E l’interpretazione incrociata di quei dati produce un valore che le piattaforme conoscono molto bene, e che si fanno pagare a peso d’oro dalle aziende interessate ad acquisirli. I fatti però non possono che essere, sempre, la risultante di azioni umane concrete. Perché i fatti fanno la storia, e sono proprio gli esseri umani i suoi principali attori. La tecnica, però, ha costi sociali molto elevati. Eppure l’applicazione dell’IA nella medicina potrebbe essere indispensabile alla diagnosi precoce di molte malattie gravi ed invalidanti. O anche ritornare utile per liberare una quota di tempo da destinare ad altro, ad esempio sempre in ambito medico, alla cura del paziente o della relazione umana in senso lato. I costi sociali più elevati sono dovuti, oggi, al tabagismo, all’alcolismo e all’obesità, che si riversano su altre forme di malattie e di patologie che, a loro volta, presentano conti esageratamente elevati da sostenere per la comunità. Un altro problema è costituito dal quinto livello di questo ragionamento, che è rappresentato dalla biosfera, intesa come ambiente naturale nel quale noi esseri umani viviamo. Ed è ovvio che se non rispettiamo l’ambiente, salvaguardandone la sostenibilità, i primi a farne le spese siamo proprio noi viventi, che da un ecosistema malato non potremo più ricavare quelle risorse indispensabili alla sopravvivenza del genere umano. La decrescita felice, che non è contemplata dagli autori del testo come possibile soluzione dei problemi relativi allo spreco delle risorse, a mio modo di vedere potrebbe tornare utile nella riduzione degli eccessi della società dell’opulenza. La sovrabbondanza dell’occidente si può curare soltanto sottraendo il di più, piuttosto che continuando ad aggiungere il superfluo, perché il troppo rischia di produrre un futuro sommerso dai rifiuti. Con l’umanità nasce la tecnica, ma la tecnica e l’uomo stesso rischiano di scomparire se si continua ad avvelenare perversamente la natura, cioè l’ambiente in cui viviamo. Il pianeta, sic stantibus rebus, non potrà che giovarsene dalla scomparsa della specie umana. Non è l’umanità che deve salvare il pianeta, ma è l’uomo che deve rendersi operativo per salvare, in primis, se stesso. Ed è questo lo scopo della sostenibilità ambientale. Cosa fare dunque? La protezione della biosfera prevede alcune soluzioni comunemente praticabili, come mangiare locale, stagionale, e a chilometro zero; ridurre lo spreco e i consumi di plastica; curare il suolo naturale diminuendo la quota di aree cementificate anche nelle città; preservare la biodiversità delle specie; preferire le proteine dei legumi a quelle della carne perché, contrariamente a quanto fanno queste ultime, contribuiscono a ridurre il riscaldamento globale e l’impatto ambientale. E siamo così arrivati al sesto livello, che è quello della noosfera, ossia del patrimonio delle conoscenze, e dello scibile umano. Il sapere costituisce il capitale epistemologico dell’umanità. Le macchine dell’IA contengono le conoscenze documentali prodotte dagli umani. Ma perché abbiamo costruito le macchine? Per farci aiutare nei lavori pesanti. Ricordiamo tutti il detto dello scienziato greco Archimede che diceva: “Datemi una leva e vi solleverò il mondo”. Ecco, io piuttosto che di bastone - anche se è proprio il bastone il primo strumento utilizzato dalle scimmie e dagli animali in generale per aiutarsi a fare qualche operazione, ad esempio per prendere del cibo - parlerei proprio della leva, la prima rudimentale macchina che l’uomo abbia mai usato, cui segue la ruota, o l’invenzione, altrettanto rivoluzionaria, del fuoco. Successivamente abbiamo adoperato le macchine per calcolare, dalla pascalina ai pc. Poi abbiamo iniziato a programmare e a progettare in CAD e in CAM. Successivamente abbiamo portato questo sconfinato patrimonio di calcolo e di comunicazione online sui telefonini. Fino ad utilizzare oggi le neuroscienze per studiare i comportamenti umani e le patologie della mente, ma anche per sviluppare le macchine industriali, l’automazione e i robot, persino per uso casalingo, oltre che professionale. Ma le macchine hanno bisogno di noi per apprendere sempre meglio, imitando il comportamento dell’essere umano. Quindi, evidentemente, tanto imbelli non siamo. E siamo arrivati al punto che oggi le macchine vengono usate per fare soldi, vendendo alle società leader del settore quei dati ai quali sono interessate per poter implementare la propria attività e produttività. E a questo aspetto interessantissimo è necessario pensare. Perché è importante redistribuire questo enorme plusvalore del web, capitalizzandolo attraverso il webfare. Siamo così saliti al settimo livello di questa costruzione ideale, che è l’axiosfera, ossia la produzione di valore, patrimonio dell’umanità. I nostri dati, ceduti alle piattaforme, sono un capitale universale che appartiene a tutta l’umanità. Il progetto è quello di costruire Banche della Virtù, in cui i correntisti che hanno un lavoro potrebbero cedere volontariamente e gratuitamente i propri proventi per ridistribuirli e condividerli con quelli che hanno perso il lavoro, ma che si mobilitano gratuitamente sul web. Il ricavato di questa operazione finanziaria potrebbe essere equamente distribuito attraverso i dividendi per aiutare i più poveri, inizialmente in beni e servizi offerti gratuitamente, successivamente anche immaginando di poter sostenere chi è indigente ad aprirsi un conto in denaro presso queste banche della virtù, entrando in possesso di una quota capitale, in attesa di trovare un’occupazione stabile. Si andrebbe, così, a ridurre notevolmente l’incidenza della povertà sociale. La forma dell’accordo dovrebbe essere mutualistica, perché i dati appartengono a tutti. Si realizzerebbe dunque un’economia solidale dei dati. Lo spirito del webfare è proprio nell’espressione di Marx: “Da ognuno secondo le sue capacità, ad ognuno secondo i suoi bisogni”. E qui si apre il tema centrale della formazione, che non può più scindere settorialmente lo scientifico, dal tecnologico e dall’umanistico. I tecnici del futuro devono avere solide basi di cultura generale ed umanistica, e dovranno essere tanto più umanisti quanto più saranno tecnici. L’istituzione di un gruppo di ricerca come Scienza Nuova prevede, difatti, una collaborazione stretta, così orientata, tra il Politecnico di Torino e l’Università, nell’intento di fondare una Comunità di Conoscenza ed Innovazione (CCI), che ha tra i suoi obiettivi la formazione; la ricerca applicata; il supporto dell’innovazione e la condivisione di conoscenze con la cittadinanza. Ma come funzioneranno praticamente il webfare e la banca della virtù? I correntisti chiedono alle piattaforme di essere pagati per le autorizzazioni concesse nella cessione dei propri dati personali. Il ricavato confluirà direttamente alla banca della virtù, in somme di denaro, che consentiranno ai senza lavoro – o a chi dovesse aver perso il lavoro a causa dell’automazione – di aprire autonomamente un conto corrente, grazie alla redistribuzione dei proventi ricavati; oppure di ricevere la dovuta ricompensa in termini di assistenza, di servizi, di formazione e di sostegno ai più socialmente fragili. Il futuro prevede la scomparsa dei vecchi lavori e la creazione di nuovi. Ma, soprattutto, ci si troverà a fare i conti con tanto tempo liberato dal lavoro delle macchine. Tempo che potrà essere investito in formazione ed educazione degli umani. Il consumo è l’attività prevalente di ogni umano, in quanto espressione di un bisogno. Il consumo, pertanto, è un valore in sé, che può essere capitalizzato nella forma dei dati ceduti attraverso le autorizzazioni rilasciate alle piattaforme. E veniamo alle conclusioni. Si può parlare di tecnodicea come Leibniz scriveva di Teodicea? La tecnica migliora la vita umana, ed è questo il suo scopo: essere di ausilio. Essa nasce con l’uomo, ed è un mezzo, uno strumento, un utensile, una protesi. Ma a governarla è sempre l’umano. Perciò, se si vuole migliorare la tecnica, bisogna migliorare l’uomo che se ne serve. Il male, avrebbe detto Agostino, non è una sostanza, ma è mancanza di Essere, e questa lontananza dipende dall’uomo, e dall’uso sbagliato che egli fa della sua libertà. E lo stesso si potrebbe dire per la tecnica. Essa non è Dio. Semmai è l’uomo il suo dio, che agisce come signore, rispetto alla tecnica. Le macchine non hanno volontà, non conoscono il desiderio, e non ambiscono a prendere il potere. L’uomo sì, e può farlo anche utilizzando le macchine. Quindi è dell’uomo che bisogna darsi pensiero e prendersi cura, al momento, e non delle macchine.


Bibliografia:

A. Bellomo, A. Pistone, Il Comportamento Magico, Edizioni Wip, Bari 2021.

M. Ferraris, G. Saracco, Tecnosofia, Editori Laterza, Bari 2023.

Maurizio Ferraris è professore ordinario di Filosofia Teoretica dal 1995 presso la Facoltà di Lettere e Filosofia, Dipartimento di Filosofia e Scienze dell'Educazione, dell'Università degli Studi di Torino.

Guido Saracco è un ingegnere chimico del Politecnico di Torino, ed è stato rettore di quella università dal marzo 2018 al mese di gennaio 2024.


Sitografia:

M. Ferraris, Intelligenza artificiale e intelligenza naturale, https://sanoma.it/articolo/intelligenza-artificiale-intelligenza-naturale?


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L’idea filosofica che Maurizio Ferraris enuncia e propone nel suo testo del 2012, il Manifesto del Nuovo Realismo , è che vi sia un andamento, nella storia del pensiero filosofico , che si possa sinteticamente esprimere come pensiero contemplativo, nella filosofia antica; come costruzione delle certezze, nella filosofia moderna; come decostruzione del sapere, nel pensiero contemporaneo e postcontemporaneo. E che vi sia, nell’attualità, il bisogno di una ricostruzione, meno ingenua e più critica del passato, che assurga ad un nuovo Illuminismo del pensiero, auspicabile per la nostra epoca.

Ciò che rende, a mio modo di vedere, questo scritto un grande libro, è però la tesi di fondo che è sottesa a tutta la logica argomentativa, che esplicita le ragioni per un nuovo realismo del pensiero, rivoluzionario rispetto al non ci sono fatti, ma solo interpretazioni di nietzscheana memoria. Espressione che, a parere del Ferraris, ha fatto da sfondo a tutta un’epoca culturale, come quella del postmoderno, e della post-verità, dando adito a quel tutto è possibile, che diventa terreno fertile dei grandi inquisitori della storia umana.

Nel difendere questa rinnovata fiducia umana nella ragione, Ferraris sostiene proprio l’inemendabilità dei fatti, che esistono, eccome, nella loro oggettività, e che costituiscono il presupposto ineludibile della realtà e della verità.

È necessario, pertanto, ritornare all’Ontologia, o quanto meno al qualcosa c’è…di inemendabile. E questo inemendabile costituisce, appunto, l’attrito del reale, l’oggetto del non io che mi si oppone.

L’Ontologia, dunque, segna anche il confine dell’interdizione, dove non tutto è permesso, perché non tutto è possibile. E questa presa di coscienza esplicita il limite invalicabile, l’argine che non può essere superato. Come a dire che il re è nudo, e non c’è niente che si possa dire o fare per provare che sia vero il contrario.

L’Ontologia, come affermazione dell’inemendabilità del reale, non può essere confusa e sovrapposta alla Gnoseologia, come possibilità di conoscere il ciò che c’è o che è, nella realtà. E meno che mai può essere dichiaratamente ritenuta un articolo di fede teologica, perché la Teologia si occupa di Dio e di ciò che Lui è. Laddove l’Ontologia non necessariamente riconosce l’Essere in Dio o nella divinità in generale. Perché per l’Ontologia anche un oggetto è ciò che c’è ed è, al tempo stesso, un qualcosa.

La differenza tra l’ambito ontologico e quello gnoseologico viene ad essere evidenziata, dal Ferraris, soprattutto quando fa riferimento alla malattia, come ciò che c’è - si prenda in considerazione ad esempio il covid 19 - e quello che la medicina scientifica ne sa. Se ricordiamo le prime fasi del virus, e della pandemia da covid19, l’intera comunità scientifica internazionale si trovava proprio nell’impasse derivato dallo iato profondo tra la realtà del virus e della sua diffusione rapida e letale, nella popolazione, e le conoscenze degli infettivologi per poterlo sconfiggere e renderlo, così, innocuo alla vita umana.

La malattia esiste, ontologicamente, anche se io non la conosco, epistemologicamente. Ma i medici accertano l’esistenza della malattia non per accettarla, ma per conoscerla, gnoseologicamente, curarla, e sconfiggerla del tutto, laddove è possibile. Il Realismo è, perciò, critico e pragmatico, allo stesso tempo, in quanto guarda criticamente al reale, cercando di intervenire per agire il cambiamento dove è necessario.

Questa consapevolezza, di un realismo critico e pragmatico, ad un tempo, mi ha personalmente aiutato, in pandemia, ad affrontare con più equilibrio e maggiore lucidità mentale il covid19. Ero certa che la nostra ignoranza della malattia, o il solo fatto di volerla negare, o dimenticare, non fosse sufficiente a farla scomparire. E mi convincevo che il covid non smetteva di esistere soltanto perché io non volevo vederlo, o perché ci fosse qualcuno, come i negazionisti, che non ne accettassero la realtà vera.

Ci sono fatti che sono indipendenti dalla volontà dei singoli con i quali, sebbene non desiderandolo, ci troviamo, obtorto collo, a dover fare i conti. Con l’espressione realtà intendiamo gli oggetti reali (naturali o artefatti), e i fatti della storia, o gli eventi naturali. Accanto agli oggetti reali – i fatti – vi sono anche gli oggetti ideali, cioè tutte le costruzioni culturali del sapere umano (compresa l’IA), che costituiscono oggetti sociali e di relazione tra gli esseri umani. Ferraris sostiene che questi oggetti ideali fondano la documanità, essendo caratterizzati da quella enorme mole di documenti che l’intelligenza artificiale è ormai in grado di custodire nei suoi data base. E quindi anche questi oggetti ideali, o sociali, sono reali, e costituiscono dei fatti, in quanto tali inemendabili, della nostra realtà sociale e dell’esperienza di vita.

Va, però, mantenuta la distinzione tra gli oggetti reali, come il mondo della natura, che sono indipendenti dall’umano; e gli oggetti culturali o ideali, che costituiscono sempre delle costruzioni umane, prodotti del sapere e della conoscenza scientifica, ma anche dell’arte e della religione, che in quanto tali sono profondamente dipendenti dall’uomo.

Sebbene anche queste forme di sapere, in quanto prodotti storici, perciò documentabili, non siano nient’affatto meno certi di quelli reali. Ma costituiscono, essi stessi, dei fatti.

L’Ontologia del Nuovo Realismo riconosce, pertanto, un’inemendabilità al mondo della natura, ed una documentalità a quello della cultura, ammettendo l’esistenza dei fatti contro le interpretazioni della post verità e del pensiero debole.

Il postmoderno ha ricevuto il suo totale avallo dal prospettivismo e dal nichilismo di Nietzsche, come già dall’Empiriocritismo kantiano e dall’Idealismo hegeliano, che gli avevano aperto la strada. Si fanno avanti, così, la fine della storia e della metafisica, l’etica del desiderio e l’idea della verità come interpretazione. Caratteri del pensiero che hanno segnato il relativismo di tutta la storia del Novecento.

Riandare ai fatti, per riaffermare il valore dell’oggettività e la rinnovata fede nella ragione critica e pragmatica, per un Nuovo Illuminismo, è il compito del Nuovo Realismo e dell’Ontologia, che si conferma il primus movens della ricerca filosofica, come analisi dei fondamenti in senso forte, e primo, alla stessa maniera in cui Aristotele la riteneva possibile nella sua Metafisica.

Ed io concordo pienamente con Maurizio Ferraris. Perché ritengo che oggi non sia possibile fare filosofia se non riandando ai fatti, all’oggettività, al senso forte della ricerca che, come lo stesso Kant ricordava nell’incipit della sua domanda iniziale è, primo di tutto, una ricerca di tipo metafisico, cioè una ricerca dei fondamenti e delle cause prime di tutto il reale. E quella domanda che si rifà implicitamente al che cosa è questo? È un’interrogazione sull’essere, ed è dunque un’ontologia del reale. Che non sempre coincide con la gnoseologia, o epistemologia, intesa come ciò che sappiamo e conosciamo attorno a ciò che c’è. Ogni epistemologia è una costruzione paradigmatica della realtà ontologica dei fatti, nudi e crudi, presi così come appaiono, o si manifestano, in natura e nella realtà. Ma non si può pretendere che un modello conoscitivo, o scientifico, della realtà, corrisponda ad una rappresentazione oggettiva, ed in quanto tale, ontologica, della realtà stessa. Sebbene, almeno per quanto riguarda il mondo scientifico, la comunità internazionale esprima un assenso a considerare alcune verità leggi e teorie scientifiche accreditate a livello planetario, almeno nel momento storico in cui viene loro accordato l’assenso globale degli scienziati.


Bibliografia:

  1. M. Ferraris, Manifesto del Nuovo realismo, Editori Laterza, prima edizione Roma-Bari 2012.

  2. M. Ferraris, Il Pensiero in Movimento ed Il Gusto del Pensare, volumi 1,2,3, prima edizione, Paravia Editore, Milano-Torino 2019.

  3. F. Dostoevskij, La Leggenda del Grande Inquisitore.



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Dove Sei? Ontologia del Telefonino , è un testo quanto mai attuale, che prova ad individuare un senso ed un significato che possa collocare, in modo filosofico, nel mondo attuale, un oggetto commercializzato e abusato, quale è oggi il cellulare. La tesi sostenuta da Ferraris, è quella per la quale il mondo è costituito da soggetti, conoscenti, e da oggetti, che possono essere conosciuti. Ogni relazione umana col mondo si costruisce a partire dalle possibili interazioni significative, perché dotate di senso, tra un soggetto ed un oggetto. Quindi, per approfondire la natura di queste possibili relazioni, è necessario indagare, anche, la natura degli oggetti conoscibili. Secondo il Ferraris, gli oggetti possono essere distinti in tre categorie fondamentali. Esistono gli oggetti reali, interrogati dall’ontologia filosofica; gli oggetti ideali, studiati dalla gnoseologia; e gli oggetti sociali, che rappresentano tutte le implicazioni possibili tra gli oggetti nominati in precedenza. L’oggetto reale è la cosa in quanto tale; nel nostro caso il telefonino vero e proprio. L’oggetto ideale è il mondo dei pensieri e delle idee che il telefonino custodisce, riproduce, e conserva. Perché, può sembrare strano, ma la multimedialità ha, ormai, stravolto il fine ultimo del cellulare che viene utilizzato, anche, ma non solo, per parlare. La sua finalità non è più, difatti, quella di avere unicamente una conversazione telefonica. Col cellulare si scambiano messaggi, foto e video; ci si collega ad internet; si approcciano gli amici sui social network; si cerca un partner collegandosi ad un sito di incontri; si va su Google per accedere al mondo dell’informazione online; si leggono i giornali; si spediscono e si ricevono le mail. Il suo uso, multitasking, va da un utilizzo professionale, ad uno di tipo sociale, per contattare amici e parenti, fino ad un uso più strettamente personale, che serve a coltivare le proprie relazioni sentimentali, con chi ci sta più a cuore. Dunque, sostiene Ferraris, il telefonino serve, soprattutto, per scrivere, e per memorizzare, per lasciare traccia, per conservare e trasmettere. Potremmo dire, a buon diritto, che il parlare a telefono è diventato, ormai, solo un complemento supplementare, e non certamente prioritario, dell’uso che noi facciamo del cellulare. Il telefonino svolge, attualmente, il ruolo una volta tipico delle antiche iscrizioni, dei primi testi, o frammenti, rinvenuti dagli studiosi, che hanno poi successivamente permesso la ricostruzione di intere epoche storiche. A cominciare dai graffiti, fino ai papiri egiziani, ai frammenti dei primi filosofi presocratici, ai documenti e ai testi, che costituiscono una preziosa fonte diretta dei fatti avvenuti nel corso del tempo. Senza questo tipo di documentazione, nessuna storia umana sarebbe stata possibile. Forse, in futuro, per ricostruire la nostra epoca, saranno studiati i tabulati telefonici, come una volta venivano lette e tradotte le antiche iscrizioni. Già lo si fa, in effetti, quando si vuole indagare su qualche fatto oscuro, come un delitto o un crimine, nella nostra quotidianità. Perché il cellulare misura anche i nostri spostamenti, ed è in grado di riferire dove eravamo, disegnando un percorso che parla per tutti noi, suoi utenti e fruitori. Queste funzioni, nel loro insieme, fanno perciò del telefonino anche un oggetto sociale. Perché ci danno la possibilità di scambiare informazioni, di dialogare, e di scrivere notizie ad amici e parenti, oltre che a colleghi di lavoro. Rappresentando la mappa dei nostri rapporti, e delle relazioni che intrecciamo, ogni giorno, col mondo circostante. Il telefonino è, probabilmente, il solo mezzo che possa fungere, al tempo stesso, da oggetto reale, oggetto ideale, e oggetto sociale. Nemmeno i pc e gli ipad sono così versatili. La potenza filosofica di questi piccolissimi mezzi di comunicazione è enorme, non va sottovalutata, e nemmeno sminuita, banalizzando il loro uso. Il cellulare, lo vogliamo o no, ha ormai cambiato la nostra vita, modificando profondamente il nostro modo di comunicare, velocizzandolo, ma anche, per certi versi, imbarbarendolo (si pensi alle faccine per esprimere la mimica degli stati d’animo, o a tutte le forme di abbreviazione utilizzate, che stanno cambiando l’uso che facciamo della nostra lingua). Sottovalutare il telefonino, però, vuol anche dire non voler vedere il suo valore e significato. Negare il peso sociale, e filosofico, della sua portata. Il telefonino ormai esiste. E ha cambiato del tutto le nostre esistenze. Divenendo un oggetto di riflessione filosofica. Facciamo bene a capire questa verità. Indagandola a fondo. E accettandola. Senza fare finta che non esista. O credendo di poterla eludere con le sbrigative, e retoriche, critiche che quotidianamente, ma altrettanto banalmente, rivolgiamo al mondo della comunicazione multitasking. L’incontro faccia a faccia è sempre, e comunque, da preferire. Rimane, però, la portata rivoluzionaria di un mezzo di comunicazione a tutto tondo, che permette di interagire, in qualunque momento, da un estremo all’altro della terra, senza doversi spostare di un centimetro dalla propria sedia. Il palmare, quanto a velocità ed efficienza della comunicazione, è ancora più potente del pc. E stiamo attenti a distrarci, perché, se dimentichiamo incustodito il nostro cellulare, rischiamo di passare informazioni riservate sulle nostre vite agli indiscreti di turno. Parecchi dei quali le avranno, in ogni caso, a loro disposizione dopo la nostra ultima e definitiva dipartita.


Concordo con Maurizio Ferraris, sulla portata e sulla potenza di questi sempre più piccoli e versatili strumenti. Non accetto l’abuso che se ne fa nella socialità. Sempre più spesso mi capita di vedere luoghi di aggregazione o di attesa – studi medici, scuole, stazioni dei mezzi di trasporto – i cui spazi siano occupati da gente completamente immersa nello schermo del cellulare, incapace di guardarsi in faccia per dare inizio ad una conversazione. Io stessa, in aula, faccio molta fatica a poter instaurare un dialogo con alcuni miei alunni, particolarmente abituati ad un uso smodato del mezzo di comunicazione che, piuttosto che facilitare l’interazione con l’altro, finisce per essere di ostacolo e di nocumento alla relazione.


L’intelligenza artificiale è, oggi, ampiamente utilizzata anche per scopi didattici, ma non bisogna mai dimenticare che l’apprendimento si fonda sempre su un’esperienza diretta e reale nel contesto di riferimento, e che non può mai prescindere da una socialità viva e diretta, in presenza ed in prima persona.


La tecnologia è un ausilio alla scienza, e tale deve rimanere. Non può tramutarsi in una facile scusa per nascondersi dietro uno schermo e rinunciare al contatto vero, fatto di carne, di sguardi e, perché no, anche di odori, con l’altro essere umano.


Bibliografia:

  1. M. Ferraris, Dove Sei? Ontologia del Telefonino, Bompiani, Milano 2011.

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